The brexit along the Thames
A reportage by Marzio Mian and Massimo Di Nonno
Lungo il fiume che percorre il Sud Est dell’Inghilterra, dalle sorgenti nella regione dei
monti Cotswords, nel Gloucestershire, all’estuario e fino al mare. Bisogna percorrere il Tamigi
per andare alla fonte dell’Englishness, dove è più forte lo spirito indennitario che è sempre
stato alla base dell’ostentata distanza dal continente e che ha molto influito nell’avventura
britannica della Brexit. Un viaggio per scoprire questa millenaria arteria vitale e palcoscenico
della Nazione che trasporta ancora i miti e gli enigmi dell’Inghilterra.
Il documentario è andato in onda su Skytg24 nei giorni più caldi del dramma Brexit, alla fine
di marzo 2019. Accompagnati da voci autorevoli come quella dello storico di Oxford Norman Davies,
abbiamo incontrato agricoltori, artigiani, gente comune, e abbiamo raccontato le loro storie nel
reportage di testo e foto che trovate di seguito, pubblicato sul settimanale
GQ Italia.
Il Tamigi non è un fiume, ma Storia fatta d’acqua, “liquid History”, scrisse John Burns uno dei capi
del celebre sciopero dei portuali londinesi del 1889. Millenaria arteria vitale e palcoscenico della
Nazione, trasporta ancora i miti e gli enigmi dell’Inghilterra. Quando siamo arrivati alla fine di questo
viaggio - nel pieno del dramma Brexit - dove il Tamigi muore nel Mare del Nord, l’impressione è stata
quella di un fiume che ha perso la sua forza simbolica di apertura al mondo, ma è diventato l’imbocco
d’un’isola sempre più chiusa. Eppure è stato la porta del più grande impero nella storia dell’uomo; i
romani, che probabilmente hanno trovato similitudini con il loro Tevere, quasi volessero consegnare un
testimone hanno lasciato rovine sull’estuario e all’inizio, proprio alle sorgenti nella regione dei monti
Cotswolds. È da qui che siamo partiti nella nostra esplorazione lungo la valle del Tamigi che per quasi
400 chilometri attraversa l’Inghilterra meridionale da Ovest a Est, quello che viene definito il cuore
dell’Englishness, dove è più forte lo spirito identitario che è sempre stato alla base dell’ostentata
distanza dal continente e che ha molto influito nell’avventura britannica della Brexit. La stella polare
del viaggio è stata lo storico Norman Davies, uno che da molti anni lavora sul binario dell’identità
inglese e britannica e ha da poco pubblicato una storia dell’Europa; e poi vive e insegna nella sapiente
Oxford, quindi lungo il Tamigi, perfetto per farci entrare nel cuore dell’enigma.
Abbiamo navigato per un lungo tratto sulla Skûtsje, una barge d’epoca costruita nei canali olandesi e
trasportata fino all’alto Tamigi attraversando il Mare del Nord e le 45 chiuse del fiume. I nostri
ospiti, Martin e Sarah, vivono nel barcone da tre anni, lui giardiniere e lei fisiologa. Martin ci ha
raccontato di amici che si preparano al peggio, tipo guerra, fanno le scorte di cibo a lunga scadenza e
di medicine. La coppia vive nello stile anticonformista, eccentrico e libertario che si respira sulle
sponde del fiume nel Gloucestershire. Dopo Lechlade il Tamigi punta decisamente a Est, fino a Londra
scorre in un paesaggio preindustriale, fermo in un tempo indefinito. È ancora il fiume del pittore
William Turner, di Charles Dickens e di Agatha Christie. La campagna è proprio come te l’immaginavi che
fosse, salici, canneti, muretti a secco. Non è lontana la megalopoli che detta le regole alla modernità
globale – la sera a Est il cielo è rosso a segnalare la presenza possente di Londra - eppure gl’inglesi,
che abbiano votato Leave oppure Remain, qui sembrano vivere in un acquarello, calzano tutti scarpe di
cuoio, camminano con il cane e senza il telefonino, fieramente antimoderni.
Nell’Oxfordshire, all’altezza di Bampton dove è stata girata la serie Downtown Abbey, il paesaggio
s’allarga, il fiume attraversa la più fertile campagna d’Inghilterra. Nonostante le apparenze placide
questa è terra insanguinata da molte battaglie, sassoni contro danesi, la Guerra civile; si sente
l’affollarsi di Storia e di storie. È la vecchia Inghilterra feudale e rurale. Da quattrocento anni, per
dire, questa fetta di pascoli che confina con il Tamigi è di proprietà dell’università di Oxford: tremila
acri di terra, 400 mucche da latte. Il valore del terreno è cresciuto del 300 per 100 in 15 anni, perché
Londra è a un’ora sola di treno e se un domani cambiasse la destinazione d’uso si scatenerà la corsa
all’acquisto per edificare residenze di lusso. Le fattorie famigliari chiudono perché non riescono a
investire e ad ingrandirsi per reggere la concorrenza dei grandi gruppi, soprattutto tedeschi e olandesi,
che sono sbarcati nell’isola negli ultimi vent’anni. Gli agricoltori come Martin Kinch, si aspettano
grandi cambiamenti con la fine dei sussidi europei; il governo di Theresa May ha garantito che i farmers
riceveranno fondi pubblici, ma dovranno però allargare le proprie competenze e responsabilità diventando
“custodi del territorio”, in sostanza saranno i guardiani dell’ambiente. Lungo il fiume tuttavia cresce
la preoccupazione per un possibile degrado delle attuali condizioni ambientali come conseguenza della
Brexit. Perché se il Tamigi è risorto è sì con la chiusura delle fabbriche delle Midlands, ma soprattutto
grazie ai fondi europei e ai diversi progetti finanziati da Bruxelles per il mantenimento della
biodiversità. Sono tornate 130 specie di pesci, i salmoni risalgono a deporre le uova. Il Thames Path
Trail, il sentiero che costeggia il Tamigi fino a Londra, una sorta di pellegrinaggio laico lungo 300
chilometri, è diventato la mecca dei birdwatchers. Il presidente del Trail, Steve Good, teme che i fondi
potrebbero calare dell’80 per cento e sta già correndo ai ripari: ha prodotto una birra speciale, la
“Liquid Highway”, e i pub che la venderanno lungo il fiume gireranno il ricavato all’ente che gestisce il
sentiero.
Le regioni attraversate dal Tamigi, il Sudest, l’area metropolitana e fino al Kent, rappresentano il
40 per cento del Pil del Regno Unito, solo Londra produce il 23 per cento dell’intera ricchezza
nazionale. Eppure dove il fiume è ancora adolescente, fino a Oxford, alle residenze reali di Windsor e
quasi alle soglie dell’area metropolitana è dove appare più evidente il cortocircuito che si è creato in
questi anni tra l’Inghilterra tradizionale, rurale, identitaria e quella multiculturale e finanziaria di
Londra. A prescindere da come si è votato al referendum – fino a Londra le parti si sono equilibrate – è
palpabile il disagio nei confronti del vicino mondo metropolitano da parte di chi ancora vive in una
dimensione comunitaria. “Qui facciamo ancora le cose con le mani”, dicono artigiani e piccoli
imprenditori. C’è chi si aspetta un aumento del turismo con l’eventuale svalutazione della sterlina e chi
teme, come lo storico cantiere navale Freebody, di perdere rapporti esclusivi con clienti europei, ad
esempio i motoscafi di lusso Riva, perché i pezzi di ricambio potrebbero diventare troppo costosi a causa
dei dazi sulle importazioni. Quando siamo arrivati a Londra, ci è sembrato un altro fiume. Infatti lì il
Tamigi è quello vittoriano, capitalista e infine globalista. Le architetture firmate sprigionano
modernità, potere e forse arroganza. Dall’East End gentrificato sono stati espulsi a spallate quei
settori della società non più funzionali e inadeguati a reggere il ritmo del contemporaneo. Norman Davies
parla di Londra come di un’isola nell’Isola, una Città Stato sempre più autosufficiente e
autoreferenziale. Si dice convinto che la Brexit avrà un effetto irrimediabile anche sul futuro
equilibrio tra le nazioni del regno. “A volte mi chiedo che cosa avrebbe votato Wiston Churcill”, dice
Davies, “perché era un grande imperialista e allo stesso tempo era un grande europeo. Nel 1946 partecipò
al primo congresso europeo a Den Haag e parlò degli Stati Uniti d’Europa. Ciò che intendesse è
controverso, ma sapeva bene che la Gran Bretagna non sarebbe sopravvissuta senza gli altri”.
L’estuario è stato la porta dell’Impero, non a caso Elisabetta I tenne a Tilbury, sulla sponda
dell’Essex, il suo celebre discorso alle truppe prima dello scontro contro l’Invincibile Armata spagnola.
Tilbury era chiamata “the gateaway to the world”, poi divenne una delle roccaforti dell’orgoglio operaio.
Da trent’anni, dei quindici Docks di Londra, è l’unico rimasto e le attività procedono stancamente. Si
sta trasformando in un paesaggio di rovine, case popolari, gente abbruttita, sguardi rancorosi. Qui il 72
per cento ha votato Leave. Sull’altra riva, a Gravesend, la percentuale è stata del 65 per cento. Città
di ottantamila abitanti, ai tempi gloriosi dei Docks, dei cementifici e delle cartiere, contava 400 pub
per miglio quadrato. Oggi su High Street, la via pedonale che attraversa il centro, s’incontra una
umanità di sbandati di ogni età e provenienza. Il 22 per cento della popolazione è nata all’estero,
soprattutto Est Europa. È la città più violenta dell’Estuario, nel distretto nel 2018 si sono registrati
5.253 casi di violenza contro la persona. Puntiamo su Whitstable, ultimo centro dell’Estuario, ma ormai è
Mare del Nord. Ci si arriva percorrendo la M20, l’autostrada che da Dover arriva a Londra, quella che
secondo le previsioni diventerà la via dell’inferno con il ripristino delle dogane, un intasamento
mostruoso di tir. Withstable è uno dei pochi luoghi in salute di questa parte terminale del fiume, tutto
gira intorno alla Oyster company, allevamento secolare di ostriche pregiate, così pregiate che due terzi
della produzione viene esportata in Francia. Un mercato che permette di dare lavoro a 150 persone. Ma che
la Brexit, con il ripristino delle dogane e con i dazi sulle importazioni d’Oltremanica, potrebbe
crollare. Il solo consumo interno, sia pur in crescita, non permetterebbe alla società di sopravvivere.
Negli occhi dei ragazzi e dei proprietari è questo lo spettro che s’affaccia.