Le terre pianeggianti e disabitate che scorrono per chilometri lungo il fiume Nemunas rimandano alle praterie del Nebraska, attraversate dal Missouri. Ore di navigazione dove non si rischia d’incontrare anima viva. Ogni tanto uno stormo di aironi o di cigni prende il volo, quando il silenzio è rotto dal ronzio del nostro motore da un cavallo e mezzo – quello dei decespugliatori per intenderci – che, con non pochi imprevisti, ci ha portato da Kaunas fin qui, sul tratto di fiume tra Smalininkai e Rusnę che fa da confine tra Europa e Russia. “Il governo Lituano vuole spaventarci sui russi. Ma sono cose che ci dicono solo perché stanno a sentire gli americani. A noi i russi piacciono, non pensiamo che siano una minaccia per il nostro Paese” sostiene Ona. È una signora sulla sessantina che vive in Canada da oltre vent’anni. Ogni estate torna a casa a trovare la sorella a Panemunė, l’unico posto di frontiera lungo il fiume tra la Lituania - baluardo dell’Alleanza nel Baltico, piccola repubblica che il 23 agosto ha festeggiato il trentesimo anniversario della storica Baltic Way, la catena umana che da Vilnius a Tallin portò quasi due milioni di persone a prendersi per mano per chiedere pacificamente l’indipendenza dall’ormai vacillante Unione Sovietica - e la russissima Kaliningrad, intitolata al bolscevico della prima ora e primo presidente del Soviet Supremo, Michail Kalinin.
Luoghi di frontiera come questo offrono un punto di vista privilegiato per comprendere il
paradosso della distanza che corre tra la politica fatta nelle capitali e il quotidiano di chi
abita queste regioni marginali. Su questo tratto di Nemunas, come a Kirkenes in Norvegia
o Narva in Estonia – avamposti sulla linea rossa che separa Nato e Russia – forse per un
intimo spirito di autodifesa o per un comune senso d’appartenenza allo stesso territorio,
molte persone non si preoccupano della decisiva partita a scacchi che si gioca intorno
alle loro vite, e si concentrano sul proprio vissuto e sul futuro.
La Russia è da sempre considerata dai governi lituani un pericolo reale. Le cicatrici delle
atrocità commesse dai sovietici durante l’occupazione sono lente a rimarginarsi. Tra le
Repubbliche Baltiche, la Lituania è forse quella che più nutre ancora oggi, un forte
rancore nei confronti della Russia, erede legittimo dell’Unione Sovietica.
L’Oblast di Kaliningrad è un fazzoletto di terra più piccolo della Lombardia ma di enorme
importanza strategica e militare. Oggi per Mosca è la base avanzata occidentale più
grande, “fortino” fondamentale in quella che molti esperti hanno ormai definito la
seconda guerra fredda. L’anno passato il Cremlino ha inviato a Kaliningrad in modo permanente
l’intero comparto di missili Iskander-M – in grado di raggiungere, con testate convenzionali e nucleari,
obiettivi di ogni genere entro un raggio di 500 km – mentre anche quest’estate il governo lituano
(al pari degli altri governi baltici, ma anche di Finlandia e Svezia) ha denunciato la frequente violazione
dello spazio aereo da parte dei jet russi. Ora più che mai la dottrina della minaccia incombente, le voci di
possibili attacchi e azioni militari, le moderne incursioni dei pirati informatici russi
esercitano una grande pressione psicologica sulla popolazione lituana.
Sul confine, le persone sembrano però essere più interessate al fiume che a Kaliningrad.
L’alone di mistero che circonda questa regione, ritenuta da Bruxelles il luogo più sensibile
d’Europa, potrebbe indurre a immaginarsi questa frontiera ancora piena di garitte e spie
indaffarate a raccogliere informazioni sul nemico. In realtà oggi i mezzi di controllo,
deterrenza e dissuasione sono ben altri e il campo di gioco non è più sul terreno ma in
rete e sui satelliti, soprattutto qui, lontano dal Mar Baltico.
Dovydas e Victoria, le giovani guardie di confine che incontriamo appena attraccati al
piccolo molo di Smalininkai, ci dicono che in effetti “di russi qui non se ne vedono molti,
anzi, non se ne vedono proprio.” A dire il vero, su entrambe le sponde di questo tratto di
fiume non c’è anima viva. Distanti non più di trecento metri l’una dall’altra, l’unica
differenza è che sulla riva lituana, coperta dai boschi di pino che hanno rimpiazzato quelli
di querce secolari abbattute dai sovietici per il valore del rovere, dal 2009 è stato
installato un avanzatissimo sistema integrato di sorveglianza ambientale mentre su
quella russa, oltre alle cittadine di Neman e Sovetsk, non c’è niente, nemmeno gli alberi.
Arvydas Ašmonui, 50 anni, è stato per oltre dieci anni una guardia della State Border Police. Proprietario dell’unica pensione di Smalininkai si è sempre interessato più alle trote che alla politica estera. “Quel che mi mette tristezza è vedere come oggi il fiume sia stato abbandonato rispetto al passato; non so da cosa dipenda, forse è una questione generazionale” suggerisce. E non si spiega perché le autorità non lo considerino una risorsa a livello commerciale. “Il mese scorso è passato di qui il Ministro del Commercio per un evento. Gli ho chiesto di sostenere l’imprenditoria locale ma lui mi ha risposto che il fiume non interessa, che non è un business profittevole.” Forse però non è un caso che il governo, che continua a sentirsi come “sotto assedio” dei russi, preferisca indirizzare risorse e investimenti altrove.
Anche Regina presidia con orgoglio il suo angolo estremo di Lituania. A Panemunė, paese con poche case, uno scivolo per le barche e un paio d’uffici per il visto russo, gestisce l'unica tavola calda, il Baras Motelis, frequentata esclusivamente dagli agenti della dogana in pausa pranzo. Da dietro il bancone, mentre serve i tipici Cepelinai o “zepelini”, pasticci di patate farciti con carne a forma di dirigibile che prendono il nome dal celebre Zeppelin, si definisce una patriota e sostiene che “dopo l’indipendenza è migliorato tutto”. “Certo, la vita è un po’ più costosa ma è un piccolo prezzo da pagare per la libertà che abbiamo conquistato” aggiunge senza dubbi. Non è d’accordo Konstancia, la sorella di Ona, che nel giardino della sua casa a trecento metri dalla riva del fiume, tra i colori vivaci delle aiuole e le decine di pere non raccolte, afferma che “prima dell’indipendenza si stava sicuramente meglio”. ”Potevamo andare a Sovetsk senza pagare, a lavorare, a vendere la nostra frutta o a goderci il teatro” aggiunge, con una vena di nostalgia nella voce. Allo stesso tempo ammette però che “oggi è più sicuro, c’è meno povertà e quindi meno delinquenza”.
Secondo il Global Peace Index 2018 dell’Institute for Economics and Peace, la Lituania è un paese molto sicuro. “Questo è un indicatore molto rilevante” ha detto a settembre Indrė Trakimaitė-Šeškuvienė, direttrice del Dipartimento del Turismo del Ministero dell’Economia, perché “i turisti s’informano sempre di più sulla sicurezza dei paesi che intendono visitare”. Lo confermano molti esperti, secondo cui il fattore sicurezza ha un peso sempre maggiore rispetto ai costi nelle scelte dei viaggiatori, e lo sa bene anche Nijole. La studentessa di Economia e Turismo dell’Università di Klaipeda taglia corto e dice che per lei “il futuro è qui a Rusné, la mia città.” E mostra, a sostegno di quanto afferma, il tatuaggio all’interno del braccio con le coordinate geografiche della piccola cittadina dove il Nemunas piega a nord verso la Laguna dei Curi e cessa di essere confine con Kaliningrad.
Rusné è l’unico posto sul fiume dove, dalla spiaggia, si può vedere una vecchia torretta d’avvistamento russa. La stagione estiva è quasi finita, Nijole è indaffarata ad aiutare il padre con gli ultimi ospiti del B&B e non si cura dell’ingombrante vicino. Confida nel potenziale turistico della sua terra e pensa che le cose, un giorno, cambieranno. “Forse ci vorrà del tempo ma non credo che la politica potrà ostacolare per sempre questo processo” dice con l’ottimismo contagioso dei ventenni. Così travolgente che potrebbe anche convincere chi, forse, è in ascolto a Vilnius o a Mosca da una delle videocamere di controllo capaci di cogliere giorno e notte qualsiasi movimento o conversazione.