di Marzio G. Mian e Nicola Scevola
Eccolo dunque, il guerrigliero disarmato. L’appuntamento è a un chiosco di Stung Treng, verso la fine del viale alberato che affaccia sul
Mekong. Il tramonto allunga tenui striature violacee sul grande fiume, l’acqua riflette le lampadine colorate appese a festone nei locali
della riva. Sembra poco più d’un ragazzo, è vestito di verde militare, ha l’aria guardinga e selvatica. Tiene la motocicletta a un passo, e
si capisce che è pronto a balzarle in groppa in ogni momento. Sta consumando con calma e disinteresse una zuppa di pesce cotto nella foglia
di banano. Ci accoglie con quel pacifico e luminoso sorriso dei cambogiani, ma gli occhi nerissimi sono vigili, irrequieti, tradiscono
l’abitudine all’allerta. E forse una maggior dimestichezza con le insidie della giungla rispetto al caos di questo riverfront cittadino che
ha conservato una sua patina coloniale, impreziosito da alcune architetture francesi risparmiate dalle bombe della guerra civile. Difficile
parlarsi: i piani alti dei palazzi sono utilizzati per attirare un certo tipo di rondini, richiamate con degli altoparlanti che emettono
garriti artificiali assordanti, una colonna sonora che sovrasta addirittura quella dei clacson degli scooter e che invita questi uccellini a
posarsi nelle stanze vuote per costruire i loro speciali nidi di piume impastate con la saliva - migliaia di nidi, destinati al mercato
cinese, utilizzati per ringiovanire la pelle e valutati oltre duemila dollari al chilogrammo. Noi però siamo qui per raccontare un altro
business, quello degli alberi: così pregiato il legno cambogiano che in taluni casi - prendete il palissandro - si pesa al chilogrammo,
proprio come la saliva di rondine, e anch’esso finisce in Cina. Il peggior record di disboscamento illegale al mondo, la rapina del secolo
per la Cambogia: se i banditi sono spesso miserabili locali, i ranger fanno da palo e i mandanti stanno nei palazzi del potere di Phnom Penh,
la capitale. Il bottino viene contrabandato dai trafficanti nel confinante Vietnam e da lì esportato legalmente soprattutto in Occidente: un
affare da 10 miliardi di dollari l’anno. Dal 2011 la Cambogia ha perso il 64 per cento della sua foresta pluviale, un tempo considerata
l’Amazzonia del Sudest asiatico. Nel solo 2020 sono stati disboscati 50 mila ettari. “Ci sarà un carico stanotte”, dice il giovane a
bruciapelo. Si chiama Heng Sros, sa d’essere nato nell’anno del cavallo e quindi ha circa 27 anni. Ma è già un “guerrigliero” veterano di
tante campagne, le sue armi nella foresta sono il Gps, la telecamera, un taccuino per segnare target, nomi, cifre e mappare la rete del
colossale saccheggio; la sua battaglia è impari, disperata e pericolosissima. Perché questo cavaliere errante e solitario in sella alla sua
Honda Dream 125 quattro tempi non è un Don Chisciotte, ma affronta mostri veri, i suoi report sui “cartelli della motosega” fanno male e in
molti lo preferirebbero morto. È appena rientrato da un pattugliamento al confine, sul telefono ha archiviato foto di camion militari che
trasportano in Vietnam “legno rosso”, soprattutto padouk, palissandro, e altri legni in pericolo di estinzione come il beng, il kranhung e il
sokram; ma Heng è già in contatto con i suoi informatori qui nei villaggi del distretto di Stung Treng, tra il Mekong e la Prey Lang, circa
3600 chilometri quadrati di foresta dichiarata “protetta” dal governo (per abbattere tronchi in santa pace, come scopriremo) tra le province
settentrionali di Kampong Thom, Preah Vihear, Kratié e appunto Stung Treng. La soffiata è attendibile, dice. Non si sa quanto legno sarà
trasportato né dove sarà diretto, ma la fonte, un contadino della comunità indigena Kuy, conosce il punto da dove i criminali usciranno dalla
boscaglia in direzione dell’argine destro del Mekong.
Il resto dell'articolo si trova in italiano sul sito di Internazionale e in tedesco su quello di Reportagen.