Tree predators
Text by Marzio G. Mian and Nicola Scevola
Images by Nanni Fontana and Massimo Di Nonno
The reportage was realized with the support of the 
The Cambodian rainforest is called the Amazon of continental Southeast Asia because of its ability to absorb CO2, protect biodiversity and regulate the flow of the Mekong River. But this green lung is disappearing at an alarming rate: since 2011, Cambodia has lost more than half of its trees, one of the worst records in the world. Trafficking this timber is a lucrative trade – a billion-dollar business actively orchestrated by the political and military leadership in Phnom Penh. In the same jungle where one of the bloodiest wars of the 20th century raged, young guerrilla fighters armed with video cameras and GPS are now fighting to document how Cambodian timber is smuggled into Vietnam. From there it is laundered with false certifications and exported to international markets, including China, the European Union and the U.S. And at the same time, activists fighting against deforestation in Cambodia are arrested and accused of terrorism. Our video shows how an environmental issue has turned the Mekong basin into a geopolitical battleground and what the consequences are for all those involved.
The documentary has been aired in Italy on Skytg24, in Switzerland on Falò - RSI and online on the Pulitzer Center website. The reportage has been published on the Swiss monthly Reportagen and on the Italian weekly Internazionale.
di Marzio G. Mian e Nicola Scevola
Eccolo dunque, il guerrigliero disarmato. L’appuntamento è a un chiosco di Stung Treng, verso la fine del viale alberato che affaccia sul
Mekong. Il tramonto allunga tenui striature violacee sul grande fiume, l’acqua riflette le lampadine colorate appese a festone nei locali
della riva. Sembra poco più d’un ragazzo, è vestito di verde militare, ha l’aria guardinga e selvatica. Tiene la motocicletta a un passo, e
si capisce che è pronto a balzarle in groppa in ogni momento. Sta consumando con calma e disinteresse una zuppa di pesce cotto nella foglia
di banano. Ci accoglie con quel pacifico e luminoso sorriso dei cambogiani, ma gli occhi nerissimi sono vigili, irrequieti, tradiscono
l’abitudine all’allerta. E forse una maggior dimestichezza con le insidie della giungla rispetto al caos di questo riverfront cittadino che
ha conservato una sua patina coloniale, impreziosito da alcune architetture francesi risparmiate dalle bombe della guerra civile. Difficile
parlarsi: i piani alti dei palazzi sono utilizzati per attirare un certo tipo di rondini, richiamate con degli altoparlanti che emettono
garriti artificiali assordanti, una colonna sonora che sovrasta addirittura quella dei clacson degli scooter e che invita questi uccellini a
posarsi nelle stanze vuote per costruire i loro speciali nidi di piume impastate con la saliva - migliaia di nidi, destinati al mercato
cinese, utilizzati per ringiovanire la pelle e valutati oltre duemila dollari al chilogrammo. Noi però siamo qui per raccontare un altro
business, quello degli alberi: così pregiato il legno cambogiano che in taluni casi - prendete il palissandro - si pesa al chilogrammo,
proprio come la saliva di rondine, e anch’esso finisce in Cina. Il peggior record di disboscamento illegale al mondo, la rapina del secolo
per la Cambogia: se i banditi sono spesso miserabili locali, i ranger fanno da palo e i mandanti stanno nei palazzi del potere di Phnom Penh,
la capitale. Il bottino viene contrabandato dai trafficanti nel confinante Vietnam e da lì esportato legalmente soprattutto in Occidente: un
affare da 10 miliardi di dollari l’anno. Dal 2011 la Cambogia ha perso il 64 per cento della sua foresta pluviale, un tempo considerata
l’Amazzonia del Sudest asiatico. Nel solo 2020 sono stati disboscati 50 mila ettari. “Ci sarà un carico stanotte”, dice il giovane a
bruciapelo. Si chiama Heng Sros, sa d’essere nato nell’anno del cavallo e quindi ha circa 27 anni. Ma è già un “guerrigliero” veterano di
tante campagne, le sue armi nella foresta sono il Gps, la telecamera, un taccuino per segnare target, nomi, cifre e mappare la rete del
colossale saccheggio; la sua battaglia è impari, disperata e pericolosissima. Perché questo cavaliere errante e solitario in sella alla sua
Honda Dream 125 quattro tempi non è un Don Chisciotte, ma affronta mostri veri, i suoi report sui “cartelli della motosega” fanno male e in
molti lo preferirebbero morto. È appena rientrato da un pattugliamento al confine, sul telefono ha archiviato foto di camion militari che
trasportano in Vietnam “legno rosso”, soprattutto padouk, palissandro, e altri legni in pericolo di estinzione come il beng, il kranhung e il
sokram; ma Heng è già in contatto con i suoi informatori qui nei villaggi del distretto di Stung Treng, tra il Mekong e la Prey Lang, circa
3600 chilometri quadrati di foresta dichiarata “protetta” dal governo (per abbattere tronchi in santa pace, come scopriremo) tra le province
settentrionali di Kampong Thom, Preah Vihear, Kratié e appunto Stung Treng. La soffiata è attendibile, dice. Non si sa quanto legno sarà
trasportato né dove sarà diretto, ma la fonte, un contadino della comunità indigena Kuy, conosce il punto da dove i criminali usciranno dalla
boscaglia in direzione dell’argine destro del Mekong.
È così che ci troviamo in piena notte a seguire per quasi due ore le moto di Heng e di un suo devoto scudiero lungo una pista sconnessa
che affianca il fiume in direzione Sud. L’aria è calda, l’odore della polvere si confonde con quello stordente del frangipane.
Attraversiamo una campagna piatta, ogni tanto qualche nucleo di case sparse, fatte di legno e sorrette da palafitte: soluzione anti-monsoni,
utile anche a mantenere più fresca l’abitazione e per parcheggiarvi bestiame e mezzi agricoli. A presidio degl’incroci, uomini in divisa o
piccole caserme ben curate con la scritta “Poste de Police”. Heng Sros è solito muoversi nelle notti illuni, ma stanotte la luna c’è ed è
enorme, sembra di poterla colpire con una sassata, rischiara i campi di riso, i boschetti di banani e manghi, riflette sul Mekong inondandolo
d’una luce blu metallico. Tutt’a un tratto ci fermiamo. S’intravvede una macchia più scura dove la vegetazione si fa fitta. Siamo ai margini
della Prey Lang. Dobbiamo acquattarci al riparo del chiaro di luna. Il giovane attivista punta subito verso l’unica abitazione. Sale nella
baracca sospesa, bussa con decisione, sveglia il proprietario per informarlo bruscamente che prenderemo possesso d’un pencolante stabile
nella proprietà che bordeggia la pista. L’uomo in mutande acconsente alla requisizione senza fiatare, nessuna domanda. “Il viandante è sempre
bene accolto”, spiega Heng, “purché se ne vada alle prime luci dell’alba”. C’è anche altro, l’abbiamo ormai percepito in questo nostro
viaggio nel sottobosco delle comunità rurali che assistono al massacro degli alberi: è l’istinto all’arrendevolezza, sedimentatosi nel
carattere dei cambogiani durante la stagione delle sanguinarie epurazioni dei khmer rossi: nelle campagne il terrore seminato oltre
quarant’anni fa da Pol Pot ha messo radici profonde. E il regime filocinese del premier Hun Sen domina il Paese dal 1979 sfruttando questo
stato di paralisi delle coscienze. “È stato un trauma inestirpabile, difficile da spiegare”, dice Heng sottovoce, mentre siamo seduti sui
calcagni dietro un muretto ad aspettare il carico per l’imboscata. “Nessuno ne parla, ma è sottinteso, un tabù collettivo. Sono cresciuto in
una famiglia di contadini, mia madre non accetta la mia ribellione, è terrorizzata che mi metta contro i potenti. M’implora di nascondere le
mie idee e la mia educazione, perché ricorda che cosa fecero i khmer rossi a chi possedeva un’istruzione. Teme che m’ammazzino”. Fa capire
che potrebbe accadere. D’altronde è ritenuto l’erede di Chut Wutty, il leader ambientalista che per primo ha denunciato il ruolo dei militari
nella distruzione della Prey Lang e che venne ucciso nel 2012 ad un posto di blocco a ridosso del confine con la Tailandia. “Ero ancora un
monaco allora”, racconta Heng, “avevo già partecipato con i fratelli a varie cerimonie di ordinazione degli alberi nella Prey Lang, cingevamo
i tronchi con la veste buddista, consacrandoli per dissuadere i trafficanti. Vedevo però che la gente aveva paura di denunciare, la foresta
da cui dipendeva la tradizione e la vita dei villaggi spariva e tutti tacevano. Il sacrificio di Wutty mi ha convinto a seguire il suo
esempio. Ho abbandonato l’abito monacale e ho iniziato la mia battaglia”. Per finanziarla ha venduto tutto ciò che possedeva, anche un
terreno ereditato dalla madre, dice. “Per il governo sono un fuorilegge, chiunque si ribella è un fuorilegge. Sapete che la parola oukteam,
ribellione, è appena stata proibita per decreto? Pericoloso solo pronunciarla.” Riceve continue minacce di morte, un trafficante ha promesso
pubblicamente di tagliarlo a pezzi col machete, alcuni giornalisti di regime gli avrebbero offerto denaro per conto del governo. “È
chiaramente nel mirino”, ci hanno detto varie fonti. Nel 2021 è stato arrestato dagli agenti del ministero dell’Ambiente perché era entrato
con altri attivisti nella Prey Lang a filmare il trasporto illegale di grandi carichi di teak nei depositi della società Think Biotech. I
ranger hanno schiaffato dentro lui e festeggiato coi trafficanti. Quando, dopo cinque giorni, è stato rilasciato, gli è stato imposto il
divieto d’accesso nella provincia di Kratié e di parlare ai giornalisti - così ci racconta. Improvvisamente scarta di lato e assume una
posizione di ferma, gli occhi sembrano velluto nero lucente quando dalla boscaglia dardeggiano dei fari, e subito dopo arrivano incalzanti
gli scoppi d’un motore che arranca per la fatica. È un koyun, un “bufalo meccanico” nel gergo dei coltivatori di manioca, il trattore da
traino a due ruote capace d’affrontare i terreni più impraticabili. Quando scatta il blitz il “bufalo” sembra sgroppare, chi lo guida non
riesce a tenerlo a bada; il carico dei preziosi tronchi che s’intravvedono ben squadrati sotto la cerata è così pesante che per bloccarlo ci
vogliono una decina di metri. Nel frattempo Heng Sros e il suo scudiero puntano le torce in faccia al ragazzo alla guida del carico: nel
panico e con gli occhi spiritati, confonde il freno con la frizione e tutto traballa pericolosamente. Ci sono altri due individui su una
motocicletta di scorta, modificata con triple sospensioni posteriori, il mezzo tipico dei trafficanti della Prey Lang che vanno a ritirare
legno illegale nei villaggi per consegnarlo nelle basi di raccolta. Non sanno che decisione prendere, hanno l’aria minacciosa. Saranno
armati? Parte un interrogatorio incalzante e implacabile. Il giovane trasportatore balbetta, dice una serie di “non lo so, fratello”. Poi
ammette che si tratta di palissandro, non può dire quanto vale al metro cubo, ci sono oltre venti tronchi nel rimorchio. Heng chiede a chi
sono destinati e il giovane risponde che lui consegna ad un punto stabilito sul Mekong e poi il carico viaggia via fiume.
“Dimmi la verità, per chi lavori, fratello?” – chiede Heng.
“Lavoro per me” – risponde il trafficante.
“Non aver timore, ok fratello?”
“Grazie per essere gentile.”
“Paghi mazzette per poter tagliare e trasportare?”
“Sì divido soldi con altri. Ho bisogno di stare tranquillo”
“Hai pagato lungo la strada, hai pagato i poliziotti?”
“Non posso dirlo, fratello. Qui è dove vivo”
“Hai comprato dalla gente del villaggio?”
“Non da una casa sola, un po’ da varie case”
“Paghi anche i ranger?”
“Pago perché mi lascino in pace, mi fanno lavorare solo col buio”
“Trasporti ogni notte”?
“No fratello, ogni tre notti. Ma lasciami andare…”
Heng registra tutto col telefono, insiste sulle cifre, vuole ricostruire i vari passaggi di denaro per capire le quotazione del mercato
illegale prima della consegna al fiume, dove inizia un’altra filiera clandestina che porta fino al Vietnam. Il giovane stanotte trattiene per
sé circa 250 dollari. Sono molti soldi in questa regione dove un bracciante nelle piantagioni è pagato circa 6,25 dollari al giorno e un
operaio tessile guadagna tra i 210 e i 230 dollari al mese. Il carico riparte dietro gli strattoni del “bufalo” in un turbinio di polvere che
volteggia a lungo nell’aria oscurando i primi bagliori dell’alba. Rimaniamo sulla pista con un senso di pena per il giovane trafficante dallo
sguardo stravolto dalla paura; ma anche di rabbia per quei tronchi che dopo trenta, quarant’anni abbandonano la loro giungla ballonzolando
verso il Mekong e il mondo. Vorremmo seguirli, ma il guerrigliero disarmato ci fa capire che al prossimo giro sarebbe tutta un’altra storia,
molto più rischiosa.
“Perdiamo più foresta dal 2016, cioè da quando è protetta”, ci dice un giorno Houn Sopheap, uno dei capi della minoranza indigena Kuy,
mentre ci guida verso la terra del nemico, quella presidiata dai ranger. Siamo ora nella provincia di Kampong Thom, nella Cambogia centrale,
cuore ancestrale dei Kuy, il “popolo della foresta” che non ha più accesso alla foresta. “Farà esattamente la fine delle tigri”, dice
Sopheap. “Erano sparite con i bombardamenti americani, poi sono ritornate, c’erano le tane nella Prey Lang quand’ero ragazzo. Ora sono
scomparse definitivamente perché hanno rubato il loro ambiente, proprio come lo stanno rubando a noi”. L’ironia è che stiamo attraversando la
cosiddetta “bocca della tigre”, un fazzoletto di foresta, ormai poco più che un sottobosco, il cui accesso è autorizzato alla popolazione
locale per l’uso comunitario – tipo raccolta di funghi ed erbe selvatiche o per il taglio contingentato di legno da costruzione – e che
confina con la propaggine sud-occidentale della Prey Lang, chiamata “testa di tigre”. Tutto richiama la tigre insomma, ma lei non esiste; se
si sente un ruggito è quello della motosega. “Presto non esisteremo neanche noi”, dice Sopheap. Ha 45 anni, vive ai margini del villaggio di
Sandan con un ampio clan famigliare in una delle capanne rialzate più miserevoli della zona, ma è il “comandante” d’una dozzina di uomini
della sua comunità, tutti militanti che rivendicano a viso aperto il diritto d’accesso alla foresta e fanno parte del PLCN (Prey Lang
Community Network). Camminiamo in fila indiana nella boscaglia, Sopheap e i suoi ci portano sul luogo del delitto, le briciole di foresta di
cui devono accontentarsi. “Il ministero dell’Ambiente non protegge gli alberi, ma chi li taglia”, dice Sopheap, masticando nervoso una foglia
di cardamomo. “Ci tengono fuori dalla Prey Lang per permettere ai ranger di gestire senza testimoni gli abbattimenti illegali e ai generali
d’organizzare i carichi”.
Il sentiero s’allarga in uno spiazzo, c’è un piccolo tempio coperto da un tetto di legno, il gruppo si raduna per chiedere la protezione
degli spiriti. In mancanza dell’incenso, nelle crepe dell’altare animista infilano sigarette accese. Terminata la preghiera, rimettono i
mozziconi tra i denti. Quando la vegetazione diventa più intricata, gli uomini raccolgono rami di chheu phleung, l’albero del fuoco, che una
volta macerato viene usato per pescare: l’acqua delle pozze diventa gialla, raccontano, e i pesci salgono a galla, invece la corteccia è
benefica per le puerpere, mentre le radici del kontreak si masticano in caso di dissenteria. La foresta pluviale per i Kuy è una farmacia e
una riserva di miele selvatico. Soprattutto era l’unica fonte di reddito finché possedevano alberi di resina, tramandati per testamento di
padre in figlio. Ne incontriamo uno d’altissimo fusto, dicono che avrà una sessantina d’anni, è sanissimo nonostante l’ampia voragine
fuligginosa scavata nel basso tronco dove viene appiccato il fuoco per far colare il prezioso liquido catramoso. “Questo albero produce fino
a quaranta litri di resina l’anno”, dice Set Semt, 58 anni. La sua famiglia aveva acquisito il diritto di sfruttare 700 alberi nella Prey
Lang, lui stesso fino a qualche anno fa vendeva la resina al mercato di Kampong Thom a 2500 riel al chilo, circa 60 centesimi di euro. Nei
villaggi serviva come combustibile per le lanterne o come antibiotico se mescolato con la cera d’api. Oggi è un prodotto molto richiesto per
laccare il legno e per il calafataggio delle barche di lusso. Ma Set ha dovuto dire addio alla sua miniera di resina, così come il suo
compagno Plouk Chan, 40 anni, che aveva ereditato 900 alberi da suo padre, finché nel 2016 il governo ha dichiarato la Prey Lang riserva
naturale e per loro è diventata proibita. La foresta è di fatto proprietà di privati, società per lo più straniere, vietnamite, malesi e
cinesi, che hanno ottenuto le concessioni per 99 anni. Si chiama Economic Land Concession, è stata la madre di tutte le leggi che portano
alla svendita del Paese: un meccanismo - oliato con la corruzione - che avrebbe dovuto sviluppare il settore agroindustriale e attirare
investimenti, concedendo a privati lo sfruttamento di larghe fette di demanio, comprese le foreste. Teoricamente, la creazione di grandi
piantagioni di alberi della gomma, di manioca o banane dovevano generare introiti per lo Stato e occupazione nelle aree rurali. In realtà le
concessioni sono quasi sempre utilizzate come coperture per disboscare, il vero bottino della Cambogia. Tanto che dopo aver eliminato gli
alberi i terreni vengono spesso abbandonati. Per dare l’assalto al caveau della Prey Lang, e togliersi di torno i Kuy con le loro
anacronistiche piante medicinali o della resina, è stato escogitato il trucco dell’area protetta: sulla carta le compagnie private possono
tagliare solo in modo controllato e sostenibile per uso edile o per la produzione di compensato, ma disboscano impunemente per piazzare legno
pregiato sul mercato clandestino o per fare posto agli alberi della gomma, uniche piantagioni che fruttano molti denari.
Sopheap e i suoi uomini nel 2019 dovevano partecipare a una cerimonia buddista nella regione di Preah Vihear. S’erano dati appuntamento con
altri gruppi di attivisti Kuy del PLCN provenienti dalle quattro province toccate dalla Prey Lang per spargere incensi nella foresta,
entrando da un punto meno presidiato, e consacrare alcuni alberi secolari cingendoli con le vesti arancione, come faceva Heng Sros, il
cavaliere solitario di Stung Treng, quand’era monaco. “Ranger e agenti del ministero dell’Ambiente hanno bloccato le delegazioni prima che
potessimo congiungerci. Ci hanno tenuti bloccati nella foresta per un giorno e una notte, continuavano ad arrivare sempre più agenti”, dice
Sopheap. “È andata peggio alle altre squadre, i ranger e i militari li hanno picchiati”.
Per capire come il massacro della foresta pluviale sta stravolgendo questa regione del bacino Mekong e le comunità rurali, decidiamo di
vivere qualche giorno alla base del PLCN, il fortino dei ribelli di Sandan infrattato in una delle poche macchie di vegetazione rimaste. I
Kuy faticano a distinguere gli effetti del cambiamento climatico da quelli del disboscamento, sanno però che le due cose messe insieme sono
una bomba devastante. “Più abbattono gli alberi meno pioggia cade. Questo lo vediamo negli ultimi dieci anni”, dice Sopheap, sempre piuttosto
cupo in volto, a tratti diffidente e sfuggente. “Ormai la stagione umida si è ridotta e spostata di due mesi. Ora piove fino a dicembre o
gennaio. La foresta tratteneva l’acqua, bastava scavare un metro per trovarla. C’era acqua ovunque. Oggi, spariti gli alberi, la falda si
trova a dieci, venti metri”. Nel villaggio l’unico modo per sopravvivere è coltivare dov’è stato disboscato: riso, anacardi e soprattutto
manioca, di cui la Cambogia è il quarto produttore in Asia. A Sandan la manioca è diventata quasi una monocultura, piramidi di tuberi segnano
il paesaggio tutt’intorno a questo villaggio di circa cinquemila abitanti. I padroni sono vietnamiti e tailandesi che poi rivendono alla Cina
sotto forma di mangime per animali, amido o etanolo. Chi prova a mettersi in proprio, spiega Sopheap, deve affrontare i costi delle pompe,
s’indebita con le banche. Finché torna a fare il bracciante. L’alternativa per emanciparsi dalla povertà sappiamo già quale sia, imbracciare
la motosega e alimentare così un circuito criminale e mortale.
Le cose sono però sempre più complicate di come appaiono. Come in tutte le piccole comunità non esistono eroi vivi, ed è sottile il confine
tra la verità e la maldicenza. Sono pochi quelli disposti a parlare, giriamo a lungo a vuoto tra le promiscue abitazioni del villaggio, dove
bambini, galline, cani e mucche sembrano di tutti e di nessuno, circolano liberamente sin dall’alba, salvo rincasare disciplinatamente al
tramonto. Il primo a lanciare l’accusa è un falegname, nella sua bottega non distante dalla spianata del mercato: “Quelli che vi dicono di
difendere la foresta e gl’interessi della comunità, parlo della banda di Sopheap, sono in realtà in affari coi trafficanti. Sono loro i primi
a tagliare, con la scusa di pattugliare coprono le spalle a loro famigliari che abbattono gli alberi migliori. Qui lo sanno tutti”. Dice che
la gente ha paura d’esporsi, ma a lui non importa più niente, perché è un uomo fallito e disperato: “Non trovo più legno, nemmeno al mercato
nero. Sono un falegname che lavora a poche centinaia di metri da una foresta e non ha legno per campare, lo capite?” esclama mentre continua
a intagliare la testata d’un letto con motivi floreali. “Quando è cominciato il traffico di palissandro con la Cina è saltato tutto ed è
diventato il più grande affare di Stato. Si è puntato agli altri alberi pregiati. Così sono sceso al legno di seconda categoria, poi a quello
di terza, ora non posso permettermi neppure quello. Il mercato nero funzionava bene: chi deve costruire una casa o ripararla ottiene un
permesso speciale per procurarsi il legno necessario nell’area forestale riservata alla comunità e taglia un paio di metri cubi in più da
rivendere di nascosto. Fino a sette anni fa pagavo duecento dollari un tronco di seconda categoria. Ora non bastano duemila dollari per un
tronco di terza categoria”. Ci fa strada nel retrobottega dove ha nascosto un pezzo che fino a poco tempo fa avrebbe lasciato incustodito
all’esterno e utilizzato per costruire un pollaio.
Le accuse del falegname alla squadra del PLCN sono difficili da verificare. Ma non sono isolate. Un pomeriggio siamo stati invitati a
mangiare degli ottimi num ansom check, involtini dolci di banana e riso, a casa di Lim Hour, 56 anni, detto “il cinese” per via delle origini
della madre. Oggi è uno degli uomini più in vista del villaggio, affitta metà dello spazio del mercato coperto, gestisce una guesthouse e un
piccolo emporio. È arrivato a Sandan a nove anni su un camion di deportati, destinato a un campo di lavoro qui vicino. “Pol Pot voleva creare
la razza pura cambogiana, e io ero troppo chiaro di carnagione”, ironizza. Ha cominciato come meccanico di biciclette per strada, pagato in
cibo. Sappiamo che quando i ranger arrivano al villaggio alloggiano da lui, gli scooter con l’insegna del ministero dell’Ambiente sono
parcheggiati in cortile. Signor Hour, è vero che sono collusi con i trafficanti? “Non solo loro”, risponde perentorio: “In Cambogia quasi
tutti quelli che dovrebbero proteggere la foresta la distruggono. Non importa se sono pagati dal governo o se sono attivisti”. Hour ne ha
anche per la terra dei suoi avi materni. Ci fa salire sul tetto della guesthouse e indica la catena di alte colline che interrompe la piana
disboscata a est del villaggio: “Siamo ormai un protettorato cinese, fanno quel che gli pare, si prendono quel che vogliono. Hanno disboscato
per scavare una miniera d’oro laggiù, ci sono i check-point dove non passano neanche i militari. E poi acquisiscono grandi fette di terreno,
250 dollari all’ettaro, a monte del fiume Stung Seng per costruire una diga. In Cambogia per ora c’è una moratoria sulle dighe nel Mekong, ma
i cinesi le costruiscono sui suoi tributari”.
Il borbottio della motobarca accompagna, come un sommesso requiem, il nostro pellegrinaggio al cimitero degli alberi. Stiamo risalendo da
quasi due ore l’ultimo tratto del Mekong cambogiano verso il confine con il Laos, e quelle migliaia di giganteschi spettri che emergono dalle
golene del fiume, come carbonizzati dal napalm, non hanno mai smesso d’allungare i loro osceni tentacoli neri, implorando silenzio e rispetto
per la morte della foresta. Un paesaggio anfibio di rovine che evoca immagini di città cancellate dalle guerre, Vukovar, Aleppo, Mariupol, e
l’angoscia diventa sconfinata come il Mekong quando i nostri colleghi fotoreporter, Massimo di Nonno e Nanni Fontana, alzano in ricognizione
il drone sull’intero alveo del fiume, segnato qui da ampi canali meandrici: e lo sterminio appare sterminato. Alcuni cadaveri hanno
incastrati dei tronchi a molti metri d’altezza, sembrano piazzati a croce di proposito. “Stanno lì da anni, da quando il livello del fiume,
tra agosto e settembre, saliva anche di dieci metri. Ora non supera i cinque metri”, ci dice Kong Chanty, 55 anni, capo della comunità di
pescatori di O’Svay, villaggio sulla sponda sinistra nel distretto settentrionale di Stung Treng. Quando Kong spegne il motore siamo a poche
centinaia di metri dall’ultima diga piazzata sul Mekong, appena oltre il confine fluviale con il Laos. “Questo è stato il colpo di grazia”,
dice. La barriera in cemento si staglia di traverso nel nulla, come un caseggiato sovietico. È la tredicesima diga eretta sull’asta del
fiume, undici in Cina e due in Laos, per produrre energia e irrigare campi sempre più aridi. Quando arriva in Cambogia il fiume è un gigante
ormai esangue. Nella lingua khmer il “colore Mekong” significa marrone-fango, ma ora si naviga sul blu. “Le dighe trattengono gran parte dei
sedimenti, l’acqua scende lenta”, spiega Kong. Non c’è spinta sufficiente per trasportare fino al delta i sedimenti che riescono a filtrare,
così questi si depositano sul fondo riempiendo le fosse che in questa regione rendevano il Mekong il fiume più pescoso del mondo: depressioni
profonde anche settanta metri e larghe vari ettari dove circa 400 specie di pesci si riproducevano nella stagione secca.
Qui in Cambogia l’“ecosistema Mekong”, con la sua alternanza tra stagione umida e secca, è andato in cortocircuito. Non solo per gli effetti
del cambiamento climatico, esacerbati dal disboscamento selvaggio, ma anche per le conseguenze generate dalle dighe: l’acqua a monte viene
rilasciata quando e come lo decide la Cina e pure nel periodo dei monsoni è troppo poca e troppo lenta. La ciclicità che segnava ogni sei
mesi il rapporto tra il fiume e la Prey Lang non funziona più: le fosse ricolme di sedimenti impediscono al livello dell’acqua d’abbassarsi a
sufficienza anche durante la stagione secca. Con il risultato che vaste aree di foresta restano allagate per troppi mesi l’anno uccidendo gli
alberi. Il plancton marcisce, non nutre i pesci e avvelena le piante. Il Mekong, dice il pescatore, univa i popoli del Sudest asiatico, a
prescindere dalla politica e dalle guerre: “Era il fiume di tutti, oggi ogni nazione lo usa per i suoi interessi e a scapito degli altri. Le
dighe hanno trasformato il Mekong in un campo di battaglia”. C’è il cimitero degli alberi, e c’è il lutto dei pescatori: “Ognuno di noi
pescava fino a una tonnellata di pesce l’anno, ora non ci basta più per sfamare una famiglia”.
E così sono diventati ribelli, e quindi fuorilegge, anche i pescatori. Si battono contro le dighe e contro la rapina della foresta. Perché
tutto si teneva nell’“ecosistema-Mekong”, pesci e alberi, acqua e radici, spirito e risorse. L’equilibrio è saltato in fretta, sono bastate
poche generazioni di trei kol raing, una specie di barbo gigante con la testa di serpente, prelibatezza delle acque dolci cambogiane. S’è
creata una piccola ressa un giorno al mercato del pesce di Stung Treng: non erano forestieri, erano massaie e pescatori locali, tutti in
contemplazione d’un esemplare da una decina di chili che fino a cinque anni fa stava regolarmente tutti i giorni su ogni banco. Siamo andati
quindi sul fronte più caldo, il lago Tonle Sap, il maggiore bacino d’acqua dolce del Sudest asiatico. Sulle guide turistiche c’è ancora
scritto - a proposito di Kampong Khleang, la meta più conosciuta per le pittoresche case colorate che si reggono su trampoli altissimi
ancorati al fondo del lago - che è “il paradiso dei pescatori”. C’è anche chi in passato ha fatto una stima secondo cui il Tonle Sap
“contribuisce al 60 per cento del consumo proteico dei cambogiani”. Ancora l’85 per cento delle duemila famiglie di Kampong Khleang vive di
pesca. Ma in cinque anni, come ci dice il vice presidente dell’associazione dei pescatori locali Chea Kchong, sono passati da 300 a 30 chili
al giorno: “Il crollo definitivo è avvenuto con la costruzione dell’ultima diga, nel 2017. Ma il lago già non funzionava più come prima”.
Chea si riferisce al miracolo d’ingegneria idraulica naturale che permette, permetteva, al Tonle Sap e al Mekong di travasarsi l’un l’altro
le acque due volte l’anno, attraverso un canale di 115 chilometri: nella stagione dei monsoni il lago drenava il grande fiume espandendosi
fino a 5 volte mentre nella stagione secca lo alimentava rilasciando insieme alle sue acque milioni e milioni di tonnellate di pesci. Perché
il lago era una nursery, un allevamento naturale: “I pesci deponevano le uova tra le radici della foresta allagata, ma questa sta marcendo e
scomparendo. Il lago s’alzava puntuale il 10 di giugno, in quei giorni si ballava e ci si sposava. Passava da 2-3 metri fino a 14 metri. Ora
impiega fino ad agosto per riempirsi, perché i cinesi devono colmare i loro bacini idroelettrici, e non cresce più di cinque, otto metri. I
nostri figli scappano nelle città, i pescatori per sopravvivere diventano braccianti o entrano nel traffico del legno”, dice Chea. Su una
lancia stiamo attraversando con lui il Tonle Sap – grande quasi cinque volte il lago di Ginevra – per raggiungere Moat Klat, il villaggio
galleggiante ancorato ai margini della foresta sommersa e quello che paga il prezzo più alto nell’intero bacino: “Qui tagliano alberi non
solo per il legno, ma soprattutto per fare spazio alle piantagioni perché il terreno è fertilissimo. E poi incendiano la foresta per creare
pascoli umidi, adatti all’allevamento dei bufali”.
Difatti dopo 72 anni di vita, passata tutta sulla sua chiatta alle prese con le insidie dell’acqua o del vento, il capo del villaggio,
Chheung Hok, si trova ad affrontare per la prima volta il pericolo del fuoco. Racconta quali erano i problemi per le circa trecento famiglie
anfibie quando il lago faceva il suo lavoro in armonia con la foresta, ad esempio parcheggiare i corpi dei defunti sugli alberi in attesa
della secca per poterli seppellire. Oppure difendersi dai cobra o dalle incursioni delle scimmie ladre. “Ora non sappiamo più dove sono
finite le anime dei morti, è questo il nostro peggior tormento”, dice Chheung mentre getta interiora di pesce in una gabbia agganciata alla
chiatta e ribollente di famelici baby-coccodrilli. “Lo spirito dei nostri cari abita negli alberi della foresta, e noi li abbiamo sempre
riconosciuti e adorati. Ma ora non ci sono più. Tagliare gli alberi per noi significa attirare la maledizione dei morti, e infatti li
tagliano solo quelli che non sono di qui. Chi è di qui li distrugge appiccando il fuoco per non sentirsi in colpa. Ma noi li malediciamo, la
loro stirpe non avrà mai pace”.
Okhnas: è una parola che ricorre spesso nei report di Heng Sros, il guerrigliero disarmato. Ma anche nei dossier di Global Initiative,
l’Ong svizzera che indaga sui crimini transnazionali, compresi quelli ambientali, e che ci ha confermato le pesanti accuse che abbiamo
raccolto tra gli attivisti sul ruolo del regime di Phnom Penh nel traffico illegale di legno cambogiano verso il Vietnam e da qui in Europa (
“Le nostre indagini provano c’è un alto livello di pianificazione che parte dalle alte sfere del potere”, ci ha detto Lindsey Kennedy di
G.I.). Sono l’equivalente degli oligarchi russi, solo che Vladimir Putin li elimina se non stanno alle regole del suo potere, mentre gli
okhnas tengono in pugno il premier Hun Sen: l’autocrate può continuare a governare, come fa da decenni, solo se loro possono continuare a
fare miliardi svendendo la Cambogia. Era una carica nobiliare ai tempi dell’impero Khmer. Negli anni Novanta, al termine della guerra civile
scoppiata alla caduta di Pol Pot, il titolo è tornato in auge come onorificenza civile, sinonimo di potere e ricchezza. “Si sono moltiplicati
e sono diventati i padroni assoluti in ogni settore. In un paese dove nessuno paga le tasse, gli okhnas sono la cassaforte del regime
filocinese di Hun Sen”, ci dice un’importante fonte diplomatica europea a Phnom Penh: “Gestiscono le concessioni del demanio alle compagnie
straniere e la deforestazione, tenendo a libro paga il partito del premier, funzionari del governo e generali. Se il governo sta consegnando
il paese chiavi in mano alla Cina è anche perché i cinesi sono i migliori clienti di questi gangster. Il 90 per cento degl’investimenti
stranieri vengono da Pechino, qui nessun occidentale tocca palla”.
“La questione ambientale qui è una questione politica e geopolitica”, ci dice il professore Bradley Murg. È un uomo di peso nella capitale,
non tanto per la notevole stazza, ma perché è l’americano che denuncia con poca diplomazia il saccheggio delle foreste cambogiane e le dighe
cinesi sul Mekong in un Paese che odia ancora profondamente gli Stati Uniti. È ricercatore presso il Cambodia Institute for Cooperation and
Peace, ma è consapevole che cooperazione e pace sono un problema, nessuno ha dimenticato i 250 mila morti causati dai bombardamenti Usa: tre
milioni di tonnellate di bombe americane caddero su un Paese non belligerante, 258 mila tonnellate solo nel 1973, la metà di quante usate
contro il Giappone in tutta la seconda guerra mondiale. Murg osserva che, paradossalmente, la caterva di bombe inesplose e le mine piazzate
dalle guardie di Pol Pot nelle regioni di confine sono state le migliori alleate della foresta nel tenere alla larga i trafficanti. Inoltre
che la tragica storia del Paese ha ritardato lo sfruttamento delle risorse, diversamente dalla Tailandia dove le foreste sono state eliminate
già da tempo per far posto al riso e alle strade. Quando i cambogiani hanno smesso d’ammazzarsi fra loro hanno cominciato a massacrare gli
alberi, unica fonte di moneta estera. Entrati in campo gli oligarchi, il crimine è diventato di Stato, potendo contare sulle leggi repressive
del governo, sui camion militari e sul riciclaggio in Vietnam: oggi i vietnamiti sfruttano le stesse foreste che utilizzavano per rifornirsi
clandestinamente d’armi durante le guerre contro francesi e americani.
Prima di salutarci, dopo la notte del blitz sull’argine del Mekong, Heng Sros ci ha elencato 17 compagnie coinvolte nel traffico di legno in
sei province, riconducibili ad altrettanti okhnas: “Ho inviato un rapporto dettagliato al ministero dell’Ambiente, con foto e registrazioni
allegate. Con le prove del coinvolgimento d’un generale a tre stelle e della polizia militare, del passaggio dei camion in Vietnam, delle
false certificazioni con cui riciclano i nostri tronchi per essere esportati in Europa. Niente, l’hanno rigettato”. E poi ci ha lasciato con
un appello: “L’Europa non deve continuare ad acquistare legno dal Vietnam, è legno rubato alle nostre foreste. Se davvero vuole difendere
l’ambiente e combattere il cambiamento climatico, l’Europa deve smettere d’essere complice di questo crimine”. L’ultimo incontro, in questo
nostro viaggio al capezzale dell’Amazzonia cambogiana morente, è stato con Neth Pheaktra, potente sottosegretario e portavoce del ministero
dell’Ambiente, soprannominato dagli attivisti “ministro della deforestazione”. L’imponente palazzo vuole rappresentare la Phnom Penh moderna
che sta diventando la succursale di Pechino nel Sudest asiatico. Si trova al centro del nuovo business district, scintillante quartiere di
grattacieli fra cui spicca la sede dorata di Bank of China, con vista maestosa sulla confluenza tra il Mekong e il fiume Tonle Sap. Il signor
Pheaktra è a suo agio e bendisposto, ha una lista di risposte dietro cui trincerarsi.
Ministro perché la Cambogia registra il livello più alto di deforestazione al mondo?
“Questa informazione è falsa. Il problema riguarda tutta l’Asia perché la popolazione aumenta e ha bisogno di spazi da coltivare e abitare”.
Che cosa risponde alle accuse che il suo ministero è direttamente coinvolto nel traffico illegale di legno pregiato?
“Non tagliamo gli alberi, anzi a noi servono per finanziare la conservazione della foresta e della biodiversità attraverso l’acquisto di
carbon credits e l’ecoturismo. Ci impegniamo a sostenere le comunità che vivono ai margini delle foreste, creando lavoro e sviluppo. Cosicché
non debbano ricorrere al traffico del legno”.
Gli attivisti, primo tra tutti Heng Sros, hanno documentato come la deforestazione della Prey Lang è un crimine di Stato. Che cosa replica?
“Noi auspichiamo la collaborazione di tutti gli attivisti, ma devono essere legalizzati, devono rispettare la legge. Gli attivisti che avete
citato rappresentano un’opposizione politica, prendono soldi dall’estero per screditare il governo cambogiano. Se non rispettano la legge e
agiscono contro la stabilità della Cambogia sono semplicemente terroristi”.