The Liquid Wall

The fall of the Berlin wall
after thirty years

Texts by Marzio G. Mian and Raffaele Oriani | Images by Massimo Di Nonno


The Berlin Wall came down 30 years ago. In the very same days, the fence which devided East and West Germany along the river Elbe was demolished as well. The Elbe flows through the Eastern part of Germany, from its border with the Czech Republic to the port of Hamburg and the North Sea shore. Until 30 years ago it incorporated a 100 kilometers-long segment of the iron curtain which used to split in two unreachable parts Germany, Europe and the entire world.Forty years of separation and then the magic november 1989: the border was eventually over, making possible again the simple act of picking up a ferry and reaching the fellow Germans on the other river‘s side.

From 1961 to 1989, 49 people died along this liquid Wall while trying to escape from the DDR for the BRD. They drowned in the river‘s water, freezed in the cold or were killed by the border policemen. The very few who succeded to escape recall their heroic enterprise, while the one who used to live close to the river tell about the villages which were destroyed, and the many families who were deported in order to clear the restricted area from “dubious elements”. An yet the euphoria associated with the reunification has long been over. Nowadays the same river‘s stretch symbolizes all new divisions between East and West: in many people‘s view the Elbe has never stopped to be a border, even if a mental instead of a political one.

The Eastern shore is being abandoned by its inhabitants, both in the villages as well as in the major towns: one third of the young people has already gone, and the older ones are increasingly holding a grundge against the so called “western system”, and harboring a kind of nostalgia for the former, quieter communist society. It‘s no coincidence that in thirty years only one bridge has been built along the 100 kilometers-long former border. Commuters must rely on ferries, which stop working at 9 PM. As if the border would rise again when the sun sets. The only positive legacy of the decades long forced separation of the two shores is to be noticed in the natural ecosystem: the huge biodiversity and the staggering beauty of the former no man‘s land are attracting many tourists and a growing number of pensioners from Hamburg, Berlin and other big cities.



The reportage has been aired on Skytg24 the 9th of November 2019, on the 30° anniversary of the fall of the Berlin Wall. It has also been published on the weekly magazine GQ Italia and Il Venerdì di repubblica. It has also been broadcast on Laser, a program of the Swiss Radio RSI.

“Those who stay on the eastern side of the river live in nostalgia. A third of them still feels on this side of the wall"

Inga Millon

Lutheran Pastor, Dömitz

di Marzio G. Mian

“Contrabbandieri”, “reazionari”, “nemici del popolo”, “nemici della DDR”, “abortisti”, “deviazionisti ideologici”, “sfruttatori dei contadini”, “ascoltano la radio occidentale”… Arrivando a una sorta di capitello in mezzo ai campi di patate, all’interno, e scritte in gotico, a prima vista sembrano frasi bibliche; poi, quella che Karin Toben legge nel minuscolo memoriale in mattoni e legno, si rivela la litania d’accuse usate dalla Stasi per deportare i contadini dai villaggi a ridosso del Muro che fino a trent’anni fa percorreva per cento chilometri l’argine destro dell’Elba. “Le chiamavano disinfestazioni”, dice. “Sono avvenute in tre ondate, nel ’52, nel ’61 e nel ’75, solo qui nel comune di Neuhaus hanno riguardato 23 villaggi, 63 famiglie, 248 persone. Arrivavano alle cinque del mattino, davano 20 ore di tempo per caricare tutto su un van, non veniva loro annunciata la destinazione ed era vietato parlare con chiunque. La fattoria e gli animali passavano alla collettività, al kombinat locale. Il villaggio era spesso raso al suolo, come accaduto qui a Vockfey dove hanno distrutto 15 fattorie in un solo giorno, perché questo tratto dei mille chilometri di Cortina di Ferro tedesca, che andava da Lubecca alla Cecoslovacchia, era particolarmente sensibile, molti tentavano la fuga attraversando il fiume, 49 sono morti annegati o sparati dai vopos”. Poco più in là c’è ancora la “fossa comune” dove hanno gettato i resti di Vockfey, maestosi e secolari complessi rurali dalle ampie coperture in paglia, come quelli che ancora s’incontrano e rendono questo paesaggio agricolo uno dei più conservati e poetici del continente.

Una prigione nella prigione, questo corridoio di terra oggi compreso tra i land della Bassa Sassonia e il Brandeburgo: era un’area off limits, ritagliata entro i cinque chilometri dall’argine, protetta da check point, che seguiva le anse dell’Elba da Neauhaus a valle in direzione Amburgo, fino a Stresow (rasa interamente al suolo dal regime nel 1974) a monte del fiume, arrivando da Dresda; all’interno non c’erano scuole superiori, i viveri arrivavano una volta in settimana, il paesaggio liberato dai boschi, vietate le coltivazioni oltre il metro d’altezza, le poche strade interrotte da curve ad angolo retto come nelle zone militari. Non erano ammessi ospiti oltre il primo grado di parentela. Britta era una bambina nel borgo di Strachau quando nel 1974 il regime ha costruito il Muro sull’argine, a una decina di metri da casa sua; era abituata ad affacciarsi su quello sbalzo e fantasticare: “Per me di là non c’era l’altra Germania, ma il mondo”, dice. Agronoma, ha lavorato negli ultimi anni in Africa, ora è ritornata a vivere con la madre, Silke Kowalsky, un’artista nota già ai tempi della DDR. “Io e mio marito invece sognavamo altri mondi osservando le stelle con il telescopio”, racconta l’anziana signora. “Dipingevo e badavo alle mucche al kombinat. Poi dal giorno in cui hanno costruito il Muro non ho più dipinto paesaggi, il mio sguardo era cambiato, vedevo solo spettri. Non ci hanno deportato perché qui potevano controllarci meglio”. Britta attaccò dei foglietti sulla barriera, “der zaun muss weg!”, la rete deve sparire. “La Stasi non la prese bene, ci furono conseguenze”. I ragazzi dell’Ovest avevano altri orizzonti. “Il sabato notte facevamo a chi aveva il coraggio di remare fino all’altra riva e piantare la bottiglia di birra sulla sabbia, appena passava la motovedetta dei vopos”, racconta Dieter, che oggi lavora in un centro per il recupero delle mele antiche a Konau, uno dei villaggi rurali della sponda orientale restaurati con i fondi europei: “Quando ho saputo che cosa passavano i miei coetanei qui all’Est mi sono vergognato”.

Dall’Alcatraz dell’Elba le evasioni sono avvenute soprattutto fino al 1974, quando l’argine era ancora “solo” controllato da kalashnikov e cani lupo. Nella Spoon River della Bassa Sassonia spicca la storia deamicisiana di Reiner, 14 anni. Lui e l’amico Reinhard, più grande d’un anno, si allenano in un laghetto a resistere all’acqua ghiacciata. La vigilia di Natale del 1972 si gettano nel fiume legati insieme da una fune, ma la corrente li trascina e li separa, poi Reinhard, più forte, aggancia il compagno, ma quando arrivano a Ovest il più piccolo è stremato e semicongelato, non riesce a sollevarsi dalla massicciata. Reinhard cerca aiuto nella notte per ore, infine un’auto si ferma e comincia la ricerca di Reiner lungo la riva, ma quando lo trovano è troppo tardi. Era invece una notte d’agosto quando Zerbin Holger, oggi medico in pensione a Hitzacker, cittadina termale e graziosa residenza d’artisti sulla riva occidentale, attraversò il fiume con pinne e maschera: “Ero entrato apposta nella squadra dei salvataggi marittimi, due anni di corso nel Baltico”, racconta. Aveva 18 anni, fresco di maturità. Infila diploma e carta d’identità in un barattolo del cacao, esce dalla finestra della fattoria a Vockfey (il villaggio poi spianato dai bulldozer) ma oltre l’argine trova una mandria di mucche. Per altri sarebbe stata la fine della corsa, ma Zerbin è contadino, sibila tra i denti un ordine e si crea un varco fino all’acqua. Wilhelm Jahnke, ex camionista, nel settembre del 1973 era un soldato di un reparto d’elite. Aspetta la notte senza luna, prende 12 ore di permesso, arriva nella fattoria di Bitter e si getta nell’Elba. “C’era molta nebbia, non capivo dove mi stava portando la corrente, rischiavo di finire di nuovo a Est. Poi ho visto l’Orsa maggiore e mi sono ricordato che la vedevo sempre sopra Hitzacker e ho continuato a nuotare guardando la stella”. Dopo un anno Wilhelm sente il “richiamo dell’Est”, il desiderio di ritornare “a casa”, tutto di là girava troppo veloce: “Pensavano solo al denaro, mi sentivo inadeguato anche se parlavano tedesco come me”, racconta nella casa dove abita da una decina d’anni, non lontano da quel masso dove si era tuffato nella foschia umida dell’Elba.

Non è un caso se dopo trent’anni lungo questi cento chilometri di fiume non sono riusciti a mettersi d’accordo per costruirvi un ponte. Ci sono due guadi serviti da piccoli ferry, l’ultimo parte alle nove di sera. Poi, con la notte, sull’Elba torna a calare il confine. Nel 2018 gli studenti di Neuehous per una prolungata secca sul fiume non hanno potuto traghettare a Ovest nel distretto di Dahlenburg per otto settimane. Negli impianti di biogas di Darchau non possono assumere dei tecnici dell’Ovest come vorrebbero perché devono essere reperibili h24. Si tratta di una delle poche grandi aziende, perché il settore agricolo è l’unico che attira capitali da Ovest e dall’estero: enormi estensioni di cereali e mais che sembra di stare in Iowa. “In trent’anni siamo passati dalla collettivizzazione forzata alle aziende agricole quotate in borsa su stampo americano”, dice infatti Thomas von der Heide manager del complesso che gestisce quasi duemila ettari di coltivazioni e alleva oltre mille capi di bestiame da carne. Ma la manodopera è di soli venti operai. “I giovani se ne vanno anche perché gli stipendi sono troppo bassi, chi investe dall’Ovest ci tratta come fossimo la loro Cina dietro casa”, dice Andreas Gehrke, 40 anni, sindaco di Neuhaus. “Un insegnante all’Est guadagna mille euro in meno, perché dovrebbe rimanere qui?”. Viaggiando lungo l’ex Muro liquido più a Sud, verso Dömitz e Lenzen può capitare di non incontrare anima viva per decine di chilometri. La bellezza struggente del paesaggio, i pascoli immensi presidiati da querce centenarie, rendono ancora più angosciante l’assenza d’umanità. Meli e peri, che costeggiano le strade – un’antica tradizione regionale coltivata anche sull’altra sponda del fiume – non abbondano di frutti come gli alberi visti a Ovest, quasi fossimo ad altre latitudini. Le vecchie caserme dei vopos sono divorate dagli sterpi, s’intravvedono oltre il filo spinato arrugginito gli alloggi dei cani lupo. Molte case sono state restaurate, ma dietro quelle facciate imbiancate ci abitano solo anziani e vecchi. Un terzo dei giovani, i più ambiziosi e preparati (eredità delle eccellenti scuole tecniche e scientifiche della DDR), hanno lasciato l’Est in trent’anni. “È ciò che è successo qui a Dömitz”, dice Inga Millon, 31 anni, pastore luterano proveniente da Rostock. “E chi resta vive nella nostalgia, un terzo delle persone si sente ancora al di qua del Muro”. Suo marito è l’organista della grande chiesa rossa, il vecchio organo stona, ma a gran fatica è riuscito a mettere insieme un coro “misto”, di ossi e di wessi, l’unica integrazione che funziona. In piazza i primi vanno alla gelateria DDR Softies, che esibisce memorabilia d’epoca, compreso un ritratto di Erich Honecker, l’ultimo segretario generale del partito, i secondi alla gelateria italiana.

Anche i 30 immigrati siriani arrivati nel 2015, molti di loro professionisti, una volta imparato bene il tedesco sono andati ad Amburgo, Brema, Hannover. Forse anche perché all’Est tira una brutta aria, con l’estrema destra xenofoba e antieuropea di Afd in travolgente crescita, come nelle ultime elezioni in Sassonia e Brandeburgo del primo settembre scorso. Qui si pensa, si vive e si vota diversamente. Dell’euforia post riunificazione degli anni Novanta è rimasto il ricordo, nonostante le centinaia di miliardi di euro dirottati nei land orientali. Paradossalmente nemmeno i 15 anni di regno di frau Merkel, l’ex dirigente della gioventù comunista, la cancelliera venuta dall’Est che ha portato la Germania a un benessere senza precedenti, sono riusciti a contenere la disillusione, il rancore, la frustrazione di un popolo che non tiene il passo e non ha ancora smaltito le scorie di un regime che combinava terrore e sicurezza: secondo un recente sondaggio dell’Allensbach Institure il 47 per cento dei tedeschi orientali si indentifica con il proprio land e non con la propria nazione, il 33 dice di sentirsi cittadino di seconda classe. E sull’Elba, il fiume che taglia in diagonale il Paese dalla Repubblica Ceca al Mare del Nord, il solco appare ancora più profondo: è stato il confine dell’impero romano, delimitava il regno di Carlo Magno, ha segnato la divisione tra protestanti luterani e cattolici, anche Konrad Adenauer diceva che “oltre l’Elba comincia la steppa”. Eppure questi cento chilometri di Cortina di Ferro qualcosa di buono l’hanno lasciato: “La Natura non ha confini”, dice Maria Lindow, 29 anni, geografa, nel castello di Lenzen dove ha sede il centro della Biosfera dell’Elba, patrimonio Unesco. “Dove correva il Muro e nella terra di nessuno, in sessant’anni, cioè prima e dopo l’Ottantanove, si è generata una biodiversità unica in Europa, l’habitat è paragonabile a quello di molte migliaia di anni fa”. Un mondo primordiale, così com’era quando l’uomo era ancora un animale come tanti.

di Raffaele Oriani

Visto dall'argine è un idillio: da una parte il fiume, dall'altra campi di granturco, boschi e ciclisti che approfittano della terra più piatta d'Europa per risalire da Dresda fino al Mare del Nord. Anche qui c'era il Muro. Trent'anni fa a Berlino cade la barriera che tagliava in due la città, la Germania, l'Europa. Negli stessi giorni, sulla sponda orientale dell'Elba si dà l'assalto alla rete che aveva trasformato cento chilometri di argine in capolinea del mondo: di qua la Ddr, di là l'Occidente, e in mezzo una recinzione a maglie strettissime presidiata da guardie armate e cani feroci. Trent'anni dopo, Berlino è diventata una città, qui sono ancora due sponde. L'Elba scorre per tutti: era una cloaca che raccoglieva gli scarichi delle industrie più pesanti e inquinanti del Paese, ora è un corso d'acqua limpido che – caso unico in Europa – si gode le sue dune e i suoi prati senz'ombra di cemento sugli argini. Ma se l'acqua è la stessa per tutti, nel paesino di Teldau, sponda est, la sindaca Angelika Voss ha voce solo per le differenze: “Sono nata e cresciuta in Ddr: eravamo una comunità, era tutto bellissimo finché non sono arrivati gli occidentali con la loro arroganza”. Sorride Angelika, sa di dirla grossa ma non si fa contenere dai nostri sguardi perplessi: “Guardati in giro, se una casa si nasconde dietro un muro o una siepe puoi stare sicuro che dentro ci viva un nuovo arrivato”. Sono due sponde e due mondi. A Teldau si ride ma si ricorda con rabbia, a Hitzacker, lato ovest, l'insofferenza è la stessa anche se cambia di segno: per Klaus Lehmann, direttore del museo civico, “sulla riva orientale hanno una mentalità fatalista, aspettano che le cose accadano invece di darsi da fare come noi”. L'Elba è ancora un confine. Figlio di una cortina che qui era più di ferro che altrove.

Silke Kowalski vive a ridosso dell'argine dal 1963. È un'artista, dipinge quadri di brutale lirismo, ma per anni ha munto vacche in un kombinat agricolo: “Solo con la forca in mano ero sicura di essere lasciata in pace”. Ricorda quando nel 1974 le piazzarono davanti a casa una rete alta tre metri che la allontanò per sempre dalla golena e dal fiume: “Fu terribile, da quel giorno non ho più dipinto un paesaggio”. Il confine lungo l'Elba era marcato da un sistema di controllo che negli anni diventò sempre più maniacale: prima un reticolo di filo spinato, poi una semplice rete, infine una palizzata custodita giorno e notte da guardie di frontiera con licenza di uccidere. A cinque chilometri dall'argine inziava la prima linea di rispetto, a cinquecento metri l'area di confine dov'erano ammessi solo i residenti: “Potevo andare a trovare i miei compagni di scuola, ma nessuno è mai potuto venire a casa mia”, sorride Heinrich Hauel, oggi esponente della Cdu, allora bambino all'ombra della rete. Più che un muro, un mondo a parte dove non si volevano intrusi. Ancora oggi, a ridosso del fiume sono più i vuoti che i pieni: “Dal '52 al '75 ci furono tre ondate di deportazioni di soggetti considerati inaffidabili” spiega Karin Toben, scrittrice che ai drammi dell'Elba ha dedicato ricerche appassionate e libri importanti. “La Stasi dava 24 ore di tempo per riempire un carro di masserizie, e poi via verso il confine polacco, senza neanche sapere perché si veniva cacciati da casa”. Solo dopo il crollo della Ddr i transfughi dell'Elba poterono leggere di cosa li accusava il regime: “Fannulloni, critici, sfruttatori, deviazionisti ideologici...” sta scritto sulla parete del memoriale che ricorda la deportazione dell'intero villaggio di Vockfey.

Ma per il regime l'incubo vero era la fuga. Il Muro di Berlino viene costruito dopo che 2.700.000 persone hanno scelto di trasferirsi in Occidente. Lungo i 1400 chilometri del confine tra le due Germanie le maglie si fanno sempre più strette, le fughe più rischiose, e solo sull'Elba in 49 muoiono annegati o assassinati nel tentativo di raggiungere la sponda ovest. Qualcuno però ce la fa: “Mi preparai per due anni iscrivendomi a un corso di salvataggio” racconta Holger Zerbin, che quest'estate ha festeggiato i cinquant'anni dalla sua nuotata verso la libertà. Il suo presente di medico a Hitzacker è in questa bella casa piena di libri e di quadri. Il suo passato di pioniere a Vockfey è tutto in una cartella dove spicca l'attestato di rifugiato con data 10.11.1969. Aveva diciott'anni e voleva chiamarsi fuori da quella vita a comando: “Non ne parlai nemmeno con i miei genitori” racconta senza enfasi. “La notte del 16 agosto mi calai dalla finestra e scavalcai la rete sull'argine. Poi mi nascosi in mezzo a una mandria di vacche che mi accompagnarono fino alla sponda del fiume”. Un tuffo, mezzora di nuoto e la Ddr è un ricordo: “Ho rischiato la vita ma ne è valsa la pena” riflette. “Quando mi incontro con i miei vecchi compagni di scuola mi parlano sempre di quanto si sentono penalizzati. La verità è che dopo trent'anni non sono ancora entrati nella democrazia”.

Dove fino all'89 scorreva il muro liquido dell'Elba, in trent'anni è stato costruito un solo ponte. La campata si stacca a pochi metri da Dömitz, ma il paese non sembra beneficiare della posizione strategica: le vetrine sono vuote, le persiane abbassate, i giovani assenti. Nella piazza principale resistono due bar e due pompe funebri: “Siamo qui da sessant'anni” dicono in panetteria. “A dicembre chiudiamo”. Sono due sponde e due mondi. Tra l'una e l'altra il traffico è scarso, e la curiosità per i dirimpettai sembra svanita con la barriera che li teneva distanti: “Negli anni Settanta scendevo spesso al fiume per sbracciarmi verso l'altra riva” fa una signora che è stata ragazza in Occidente. “Ma dall'altra parte c'erano solo poliziotti che rispondevano ai saluti scattando qualche foto”. Andava meglio a Heinrich Hauel: “Ci si metteva d'accordo con i parenti” ricorda il politico Cdu. “Loro si imbarcavano a Hitzacker e noi salivamo sull'argine per guardarli mentre ci salutavano”. Da est ovviamente non salutava nessuno: era considerato un segno d'intesa con il nemico, e la Stasi aveva mille occhi per monitorare ogni gesto. Il fiume era comunque una sfida. Il giardiniere Dieter Schröder ricorda le sue bravate di diciottenne occidentale: “Facevamo a gara a chi riusciva a raggiungere la Ddr in canotto: bisognava piantare una bottiglia di birra nella sabbia e scappare prima che arrivassero le guardie”. L'artigiano Wilhelm Jahnke rievoca invece il suo appuntamento con la libertà: “Nel '72 ero militare e fuggii perché non ne potevo più di ubbidire” ride di gusto. “Mentre nuovavo calò la nebbia, e mi salvai seguendo una stella che brillava proprio sopra Hitzacker: quando giunsi a destinazione ebbi un crollo nervoso e cominciai a tremare come un bambino”.

Trent'anni fa erano separate da un muro, oggi le due rive dell'Elba sono unite soprattutto dalla riserva naturale riconosciuta dall'Unesco. I ragazzi occidentali di là non vanno “perché a est sono tutti vecchi”, i ragazzi orientali se ne stanno tra loro “perché i Wessi ci considerano stupidi”. Eppure entrambi hanno di nuovo il loro fiume: “Se penso a quanto puzzava!” esclama una cinquantenne sulla sponda ovest; “Di fronte alla rete non sognavo l'Occidente, ma i prati e l'acqua che mi avevano rubato” confida Britta Kowalski, figlia della pittrice Silke. Aveva dieci anni quando fu interrogata per aver diffuso una miriade di foglietti con su scritto “Via la rete!”. Trent'anni fa i suoi genitori ne fecero uno striscione da portare in corteo. Trent'anni dopo prati e acqua sono in forma smagliante. Come se la rete non ci fosse mai stata: “Della mia fuga non interessa a nessuno” dice il dottor Zerbin di Hitzacker. “Nessuno voleva questo memoriale” confida Karin Toben davanti ai resti di Vockfey. Forse perché sulla Ddr non c'è ancora una memoria condivisa. O forse perché, come ci dice una signora nel paese di Neu Garge, “quando mio marito ha chiesto il suo dossier della Stasi non hanno potuto spedirglielo perché era troppo pesante: l'avevano spiato tutti”.